In 12°; (8), 215 cc. Legatura ottocentesca in piena pergamena con titolo e filetti in oro al dorso. Antica nota ottocentesca di acquisto all'ultima carta carta con luogo, anno e libraio dal quale il volume venne venduto. Qualche live difetto alla legatura. Un piccolo forellino al margine alto del frontespizio. Una leggera traccia di sporco alla seconda carta. Esemplare un po' corto nel margine superiore e nel complesso in buone-ottime condizioni di conservazione. Rara ultima edizione cinquecentesca delle opere del celeberrimo poeta e musicista aquilano, Serafino de' Ciminelli, o Cimminelli (L'Aquila, 1466 Roma, 1500). Rarissima edizione come tutte le edizioni delle opere di Ciminelli edita a Venezia da Nicolò Bascarini. Scrive Magda Vigilante nella voce dedicata a Serafino de' Ciminelli nel volume 25 del Dizionario Biografico degli Italiani (Treccani, 1981): Nato all'Aquila nel 1466 da genitori di nobile stirpe cittadina, Francesco e Lippa de' Legistis, compì i primi studi nella città nativa. Nel 1478 il C. seguì a Napoli lo zio materno Paolo de' Legistis, segretario del conte di Potenza Antonio de Guevara, ed entrò al servizio del conte come paggio. A contatto della raffinata società cortigiana, il C., favorito anche da una naturale. inclinazione, si dedicò con passione allo studio della poesia e della musica. Fu allievo, infatti, di un noto musicista fiammingo, GuglielmoGuarmer, sotto la cui guida "fece - scrive il Calmeta (V. Colli), amico e biografo del C. - in pochi anni tal profitto che a ciascuno altro musico italiano nel componere canti tolse la palma". Conobbe, inoltre, un altro importante musicista dell'epoca, celebrato dal Castiglione, Josquin Després, al quale si rivolgerà nel sonetto "Jusquin, non dir ch'el ciel sia crudo ed empio". Ritornato all'Aquila per la morte del padre nel 1481, vi rimase fino al 1484, riscuotendo i primi successi presso i concittadini, entusiasti per l'abilità del giovane musico, che intonava Petrarca sul liuto con grazia senza pari. Ma il desiderio della fama maggiore che avrebbe conquistato nelle corti delle grandi città indusse l'ambizioso C. ad abbandonare l'Aquila per Roma. In questa città fu ospitato dal cavaliere gerosolimitano Nestore Malvezzi di Bologna, finché non passò alle dipendenze del cardinale Ascanio Sforza, fratello di Ludovico il Moro. [.] Il giovane poeta incontrava un crescente favore popolare, spiegabile in parte con il singolare magnetismo che il personaggio esercitava sul pubblico. Di statura "mediocre" - come lo descrivono i contemporanei -, robusto, ma agilissimo, d'occhi neri e vivaci, di colorito olivastro, veloce di mano e di lingua, innamorato d'ogni donna e di nessuna, possedeva il dono straordinario di affascinare nelle sue esibizioni "l'animo degli ascoltanti, o dotti, o mediocri, o plebei, o donne." (annota il Calmeta). Né disdegnava di ricorrere ai giochi di prestigio o di destrezza, praticati dai giullari, per suscitare l'ambito applauso degli spettatori. Nel 1490 il C. accompagnò a Milano il cardinale che si recava dal fratello Ludovico il Moro. [.] Della copiosa produzione poetica del C. pochissimi componimenti furono editi durante la sua vita. Solamente dopo la morte del poeta, Francesco Flavio riunì per primo le rime del C. nel volume Opere del facundissimo SeraphinoAquilano (Roma 1502); negli anni successivi iniziò la strepitosa fortuna editoriale del C., le cui poesie ottennero (tra il 1502 e il 1513) ben venti edizioni. L'opera del C. appartiene a quel genere di poesia denomipata "lirica cortigiana" non solo perché si rivolge di preferenza al pubblico delle corti, ma anche per il motivo che i suoi autori sono essenzialmente poeti cortigiani. Nella seconda metà del '400 - e nei primi decenni del secolo successivo - si assiste ad una ricca produzione di testi poetici, composti per intrattenere piacevolmente la raffinata società delle corti. La funzione, edonistica della poesia produce una varietà di soluzioni espressive, non di rado desunte anche dalla tradizione popolare. Sonetti, ballate, strambotti e barzellette figurano in quasi tutti i canzonieri dell'epoca, e rivelano il tentativo di divulgare un linguaggio poetico medio, più facilmente fruibile per i lettori. A questa tendenza si aggiunge il particolare non trascurabile che gran parte della lirica cortese nasce per essere musicata, favorendo in tal modo una più agevole ricezione del discorso poetico. Tali premesse spiegano l'incredibile successo raggiunto dal C., il quale univa alle doti del musico la capacità di amalgamare in sede poetica gli stili più diversi, per ottenere effetti particolarmente suggestivi. La lettura delle rime del C., giunte a noi senza l'intonazione musicale, difficilmente può riprodurre l'impressione originaria, ma conferma tuttavia l'estrema duttilità di un linguaggio poetico, aperto ai più vari apporti. Reminiscenze provenzali e stilnovistiche affiorano, infatti, nell'immagine dell'uccellino messaggero d'amore ("Vanne, uccellino a quella mia nimica"), e nel motivo della donna trait d'union tra l'uomo e Dio: "Spesso convien per lei tanto alto saglia / che conoscer mi fa che cosa è Dio" ("L'aquila che col sguardo affisa el sole"); mentre al modello petrarchesco si richiamano i sonetti che svolgono i temi tipici della lirica amorosa: la bellezza e il fascino della donna amata, la quale è paragonata alla mitica fenice ("lo cerco solo amar la mia fenice"), la sua crudele indifferenza che converte in marmo persino Cupido ("Quel nemico mortal della natura"), i pianti, le disperazioni, il tormento dèl poeta respinto ("Io giurerei che non ti offesi mai"). Nel C. il repertorio tradizionale è rinnovato, tuttavia, da un serie infinita di artifici formali (interrogazioni, dialoghi, allitterazioni, anafore, iterazioni) che ha suggerito ad A. D'Ancona la tesi di un secentismo ante litteram per un fenomeno linguistico spiegabile, invece, con l'esasperazione di moduli. sfilistici derivati dalla lirica petrarchescaIMG_0311_clipped_rev_1. Un contributo originale del C. è rappresentato dagli strambotti e dalle barzellette, il cui ritmo brioso conserva una traccia dell'accompagnamento musicale. Nello strambotto "Resguarda, donna, come el tempo vola", il motivo quattrocentesco della bellezza fugace viene espresso con particolare grazia ed arricchito di nuovi dettagli: "in breve se fa scura ogni viola. / così tua beltà ch'al mondo è sola / non creder come oro al foco affine"; in altri il gusto dell'assurdo e del gratuito sovverte, sul filo di una continua sorpresa, le leggi naturali: acqua e fuoco dimorano nella persona del poeta senza consumarsi a vicenda, perché egli nasconde nel cuore una fornace ardente ed effonde dagli occhi un largo fiume (strambotto "Se dentro porto"); ma, nuovo prodigio, le fiamme del suo amore non consumano la donna amata, che è di ghiaccio (strambotto "Se salamandra in fiamma vive"). Insolita semplicità d'argomenti ed un'agile struttura metrica caratterizzano le barzellette tra le quali divennero notissime "Poiché piacque alla mia sorte" e "Non mi negar signora", imitata nella poesia spagnola del sec. XVI: "Dime, sefiora, dì". L'inesauribile vena poetica del C. produsse inoltre capitoli, epistole amorose, egloghe, e due atti scenici (dell'Oroscopo e del Tempo, come li denomina V. R. Giustiniani), che, insieme alla Rappresentazione allegorica della Voluttà, VirtùeFama, furono recitati alla corte di Mantova tra il 1495 e il 1497.. Raro. Rif. Bibl.: Brunet, I, 371; ICCU IT\ICCU\MODE\048787.